giovedì 22 novembre 2007

Violenza negli stadi

Avevamo il campionato più bello del mondo, dicevano, e forse c'è chi lo dice ancora. Ora abbiamo il campionato più razzista, e c'è chi lavora alacremente per farlo diventare anche il campionato più violento. Vedrete, prima o poi ci riusciranno, perchè alla folle corsa verso l'abbrutimento stanno partecipando tutti, giocatori e presidenti, tifosi e signori del Palazzo. Ognuno porta il suo piccolo pezzo di sterco: prima o poi ci ritroveremo tutti sommersi. E non è vero che a dar prova di saldi principi razzisti, di cori e atteggiamenti rissaioli, di invocazioni a picchiare a più non posso e di esercitazioni in rima baciata dove un insulto non si fa mai mancare a nessuno sia sempre il solito gruppetto di facinorosi «che certo non ha niente a che vedere con i tifosi veri», come si ostinano a mentire tutti i presidenti delle nostre beneamate. Non è vero. Sono la maggior parte, sono Curve intere, sono autentiche legioni, ovunque, su tutti i campi d'Italia. Sono quelli che allo stadio dettano legge, impongono cori e parole d'ordine, compattano e guidano, comandano. Sono gruppi preparati a questo unico scopo. E hanno i loro simboli il loro linguaggio, i loro segni di riconoscimento. Sono gruppi da guerriglia sportiva: basta innescarli, prima o poi faranno il botto. E hanno i loro capi, riveriti e corteggiati, che tutti conoscono e tutti foraggiano. Biglietti gratis, facilitazioni nelle trasferte, persino passaggi aerei. Alzi la mano quel presidente che abbia davvero tagliato i cordoni con simili personaggi. Saremo lieti di stringergliela e di salutarlo come il salvatore della patria calcistica.Ma quanti sono i coraggiosi? Quanti sono disposti a mettere davanti a tutto i valori di una convivenza civile tra uomini di razze diverse? E quanti i presidenti pronti a compiere un gesto di rottura totale e definitiva con il luridume razzista che si manifesta a ogni partita? Ci sono? Si facciano sentire. Stabiliscano di giocare a porte chiuse, che tanto non sono più gli incassi dello stadio a determinare i loro bilanci. Condannino apertamente giocatori e allenatori che si fanno beccare in flagranza di razzismo. Anzi, stabiliscano regole certe e le inseriscano nei contratti: il primo che sbaglia trova le valigie pronte nello spogliatoio. Partenza immediata, e senza ritorno. Ma non ci sono. E allora tenetevelo stretto questo campionato di padri di famiglia con il pargolo al seguito che si trasformano in energumeni da stadio, di giocatori che danno dello «zingaro» o del «negro di merda» ai loro colleghi, di trucidoni senza rispetto nemmeno per se stessi, di simboli sensa senso, estirpati dalla storia più atroce degli uomini (le rune, le svastiche...) e usati come fossero gadget dalle masse giovanili senza cultura alcuna. Tenetevelo stretto, ma non veniteci a dire che l'Italia non è un paese razzista. Se lo fosse davvero, non saremmo a questo punto, non avremmo il campionato di calcio più razzista e stupido del mondo. E non vedremmo quegli slogan inneggianti all'odio straripare dalle tribune degli stadi per riversarsi nella nostra vita di tutti i giorni, trasformarsi in modi di dire, pensare ed atteggiarsi. Non li sentiremmo sulla bocca dei ragazzi... Di loro ci preoccupiamo. Ma sappiamo che la stupidità è un virus contagioso, e l'esecrazione non basta, non è la medicina che possa curarlo. Occorrerebbe una svolta, dove tutti gli attuali portatori di sterco rinsavissero e tutti insieme si mettessero a remare in senso contrario, giocatori e presidenti, tifosi buoni e signori del Palazzo. Che possa accadere oggi sta solo nel mondo dei sogni. Però da qualche parte bisogna cominciare. Forse dalle mamme, alle quali, sentitamente, rivolgiamo un appello: proibite ai vostri figli di andare allo stadio.

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